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Il futuro del lavoro tra AI e gap generazionale: intervista a Osvaldo Danzi

Il futuro del lavoro tra AI e gap generazionale: intervista a Osvaldo Danzi

Parlare di lavoro in Italia non è facile. È un tema che accende subito gli animi e porta a schierarsi, spesso arroccandosi su opinioni radicali o basandosi su pregiudizi. Del resto, siamo una “Repubblica fondata sul lavoro”, come ci ricorda la nostra Costituzione, una delle poche al mondo a sancirne l'importanza con tanta forza.
Se affrontarlo è difficile, evitarlo è comunque impossibile: al lavoro dedichiamo gran parte delle nostre giornate, intorno ai successi professionali e alle relazioni che costruiamo si concentrano i nostri pensieri, si attivano emozioni, si definisce la qualità della vita e si modella la nostra identità.

E allora parliamone con un esperto: Osvaldo Danzi.

Osvaldo ci spieghi chi sei e che lavoro fai?

«Mi occupo di selezione del personale per le aziende e sono anche un giornalista a cui piace raccontare il lavoro, quello vero, che non viene sempre raccontato dai media, purtroppo a volte condizionati da logiche politiche o commerciali. Dal mio osservatorio di recruiter, grazie ai tanti colloqui con candidati e al dialogo costante con le aziende, ho una visione molto concreta delle difficoltà e dei punti di vista reali da entrambe le parti».

Recentemente hai scritto un libro dal titolo un po' inquietante “Il Lavoro Trattato Male” (Edizioni FiorDiRisorse), ma chi e perché tratta male il lavoro?

«Il termine “Trattato male” si riferisce alla superficialità e alla faziosità con cui, a volte, il tema del lavoro viene affrontato. Basti pensare, ad esempio, alla retorica ricorrente che parla di “persone al centro” o dell'azienda come di una “grande famiglia” - concetti che troppo spesso non trovano riscontro nella realtà.

Viviamo in un paese ancora afflitto da contratti precari, retribuzioni fuori mercato o non allineate alle reali competenze e capacità dei candidati, relazioni fondate su logiche di potere, resistenza alla flessibilità e allo smart working. Il modello organizzativo dominante resta quello militaresco del comando e controllo, con manager nel ruolo di ufficiali, più concentrati su aspetti tecnici ed esecutivi che sulla reale gestione delle persone

Abbiamo bisogno di superare una visione quantitativa del lavoro e abbracciarne una qualitativa, che misuri le performance in base al raggiungimento degli obiettivi, più che alle ore lavorate o al numero di riunioni a cui si è partecipato».

In Europa, e ancor più a livello internazionale, hai la percezione che il lavoro venga vissuto in modo diverso e con un maggiore equilibrio?

«Conosco a grandi linee la situazione europea, molto meno quella di altri continenti. Germania, Inghilterra e Francia soffrono di analoghe disparità salariali e stanno attraversando, come noi, una fase di profonda recessione - così come la Spagna. Tuttavia, a differenza dell'Italia, esistono forme di welfare e, soprattutto, politiche attive del lavoro davvero concrete, mentre da noi su questi temi regna un certo stato di abbandono.

Un'altra grande differenza riguarda la cultura manageriale: il rispetto dell'orario di lavoro, lo smart working, il work-life balance sono aspetti dati per acquisiti all'estero - soprattutto nei Paesi nordici - mentre in Italia noi siamo in grandissima crisi anche organizzativa.».

Quando si parla di lavoro, spesso si finisce per discutere del rapporto tra diritti e doveri, una relazione complessa che è cambiata nel tempo, di generazione in generazione. Accade così che chi ricopre ruoli direttivi abbia una visione diversa rispetto a quella che i collaboratori più giovani attribuiscono a questi due concetti. Quanto influisce il gap generazionale nel “maltrattamento” di cui parli? E, soprattutto, come potrebbe essere superato?

«Voglio sfatare un mito: a mio avviso, il gap non è generazionale, ma ancora una volta culturale. E riguarda soprattutto i giovani. “Sacrificio” e “flessibilità” non sono concetti sostenibili nell'attuale scenario del mercato del lavoro, né tantomeno - come spesso si legge in certe job description - lo è “la capacità di gestire situazioni di stress”.

Le nuove generazioni tendono a cercare scorciatoie. Manca la predisposizione all'attesa, che è invece fondamentale per acquisire competenze e raggiungere un obiettivo.

Chi ha qualche anno in più alle spalle proviene da un mondo in cui senso di responsabilità e rispetto erano parte integrante della formazione aziendale.

Sono atteggiamenti, più che comportamenti, che vanno coltivati educando i giovani a non bruciare le tappe: al senso della gavetta, che non dev'essere sfruttamento (e in questo vanno educati anche imprenditori e alcuni “senior”), allo sviluppo di competenze attraverso precisi step di crescita e adeguati processi di inserimento.

Dal lato delle aziende, c'è ancora l'idea che offrire lavoro sia sufficiente per ricevere eterna gratitudine. Ma quello è solo il primo passo. Il vero percorso è lungo e richiede attenzione, formazione, riconoscimento. Eppure, si fatica ancora a tracciare persino un piano di carriera.».

Spostando la prospettiva in avanti, c'è un argomento che crea forti mal di pancia a chi prova a declinare al futuro il verbo lavorare: l'IA. Come pensi che impatterà sul mondo del lavoro questo fattore e quali precauzioni adottare?

«Faccio una premessa: non considero negativo l'impatto dell'intelligenza artificiale sul lavoro, a patto che questo impatto resti sul piano quantitativo.
Sono dell'idea che l'AI vada conosciuta prima che criticata o esaltata.

Purtroppo, assisto a un abuso di strumenti come ChatGPT per attività che dovrebbero restare qualitative, di pensiero. La macchina viene usata come l'ennesima scorciatoia per millantare competenze che molti non possiedono (pubblicazione di post, generazioni di immagini, scrittura di libri, redazioni di compiti e tesi).
C'è poi un altro grande tema che affligge il dibattito sull'AI, contribuendo ad alzare il livello di disinformazione pubblica: il fatto che moltissimi ne parlino, ma pochissimi sappiano davvero di cosa questa tecnologia sia capace.

È imbarazzante vedere consulenti e strateghi di mercato farsi promotori dei progressi dell'intelligenza artificiale elencando tutte le meravigliose evoluzioni che ci attendono… in altri ambiti! (Quello medico è il più citato). Peccato che, proprio in certi contesti, l'intelligenza artificiale rischi di essere un agente esclusivo, non inclusivo.

Il mondo del lavoro è stato spesso scosso dall'arrivo di innovazioni che, almeno sulla carta, avrebbero dovuto cambiare repentinamente e radicalmente le regole del gioco. Penso, ad esempio, alla tanto temuta robotica, che in fin dei conti ha eliminato per lo più lavori poco qualificati e ripetitivi, garantendo maggiore velocità, precisione e sicurezza.

A differenza della robotica - che richiede tempi e costi significativi, oltre a competenze tecniche per essere implementata in azienda - l'AI è immediata e accessibile a tutti (con costi, peraltro elevatissimi, pagati dall'ambiente e dalla società). Per questo un'onda d'urto sarà inevitabile.
I primi ad averne già pagato il prezzo sono stati i creativi (fotografi, disegnatori, autori); i prossimi saranno tutti coloro che svolgono mansioni burocratiche, amministrative e ripetitive.

Non c'è stato il tempo sufficiente - come invece accadde con l'automazione alla fine degli anni '60 - per traghettare le competenze, formandone di nuove. Sarà quindi necessario creare dei cuscinetti sociali per evitare che l'avvento dell'AI impoverisca il lavoro, appiattendo le differenze. Ma soprattutto, dovremmo occuparci di più della tutela dei dati e della verifica della loro qualità, per evitare errori e aberrazioni.».

Ci avviamo verso la conclusione dell’intervista, ti chiediamo allora di fornirci un vademecum o se vuoi una check-list di punti da cui partire per iniziare a trattare meglio il lavoro dentro la nostra organizzazione.

«Il lavoro è fatto dalle persone. Trattare bene il lavoro significa trattare bene le persone!

Siamo in un momento di crisi: gli stipendi non sono adeguati, l’industria da mesi perde produttività, e in alcuni settori e organizzazioni motivazione e senso di appartenenza sono ai minimi, dando origine a fenomeni come il quiet-quitting.

Se da un lato soffriamo un gap valoriale, dall’altro chi è dotato di buona volontà e strumenti adeguati può fare la differenza. Per trattare bene il lavoro bisogna pensare al suo futuro, disegnare politiche attive, e riavvicinare il punto di vista delle imprese a quello di chi lavora o si avvicina al mondo delle professioni per la prima volta.

Questo processo di avvicinamento può avvenire solo attraverso cultura, confronto e dibattito. Abbiamo bisogno che l’informazione rispetti la deontologia professionale e che le aziende cambino vocabolario: è il momento di dire addio ai luoghi comuni, al rainbow-washing e all’autoreferenzialità.

Nel mio libro non parlo solo di chi tratta male il lavoro, ma anche di chi se ne prende cura: imprenditori e organizzazioni che guardano alle individualità. Serve umanizzarsi per umanizzare.».

Grazie Osvaldo per il tuo tempo, cosa consigli ai nostri lettori per approfondire gli argomenti di cui abbiamo parlato?

«Il mio consiglio è di cominciare a farsi più domande, anche davanti a un semplice titolo di giornale, e di stare alla larga da chi affronta il tema del lavoro con toni sensazionalisti o propagandistici.

Noi proviamo a dare il nostro contributo attraverso la rivista SenzaFiltro (www.informazionesenzafiltro.it), che ospita contenuti reali, senza sponsorizzazioni né investitori, garantendo così l’autonomia dell’informazione.

Nobilita, il Festival della Cultura del Lavoro, è un luogo di confronto e informazione dove è possibile ascoltare punti di vista non convenzionali.

La Community di Fior di Risorse è probabilmente il più grande network nazionale di professionisti, imprenditori e manager in Italia. Infine, il podcast Umane Risorse, disponibile su tutte le piattaforme, in cui ogni quindici giorni commento l’attualità del lavoro.».


Osvaldo Danzi a Nobilita